venerdì 4 gennaio 2008

MORATORIA SULL'ABORTO. Il documento di Mantovano, Gasparri, Meloni, Alemanno e Saltamartini

APPELLO AL POPOLO DI ALLEANZA NAZIONALE PER IL DIRITTO ALLA VITA

La moratoria per la vita proposta da Giuliano Ferrara, l'invito alla riflessione sulla legge 194 formulato dal Cardinale Camillo Ruini e il bilancio obiettivo di decenni di aborto "legalizzato" in Italia, in Europa e nel mondo, impongono a chiunque abbia responsabilità politiche approfondimento e azione coerente.

1. Perché l'aborto "legale" è diventato aborto "banale". Quando in Italia, a partire dall'inizio degli anni 1970, iniziò la propaganda per introdurre una legislazione abortista, l'intento dei sostenitori era di rendere la gestante libera di ottenere l'intervento abortivo senza ostacoli. Era arduo far passare in Parlamento una legge che suonasse: "articolo unico/ l'aborto è libero e gratuito". L'argomento più usato non fu un richiamo alla libertà, bensì l'opportunità di assistere la gestante che viveva una situazione difficile invece che respingerla nella clandestinità. Si è così costruita una legge - la n. 194 del 22.05.1978 - che riconduce le cause che inducono all'aborto a un'unica vaga indicazione terapeutica e impone al consultorio o al medico di espletare una fase di prevenzione/dissuasione dall'aborto. Il primo articolo della legge fissa gli scopi di essa: "Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio". Si aggiunge che l'aborto "non è mezzo per il controllo delle nascite".

Siamo convinti che trent'anni siano più che sufficienti per chiedersi se e come quegli scopi sono stati raggiunti, se la 194 viene applicata in ogni sua parte, se essa ha provocato una reale diminuzione degli aborti, come ripete stancamente la schiera dei suoi sostenitori. Le statistiche, ricavate dalle relazioni annuali dei ministri della Salute, sono parziali, poiché non considerano ai fini delle rilevazioni gli aborti - che pure ci sono - procurati con la cosiddetta "pillola del giorno dopo" (Norlevo); né finora hanno incluso le cifre riguardanti gli aborti procurati dopo l'assunzione della RU 486, "liberalizzata" da numerosi assessorati regionali alla Sanità. Infine, sempre sotto il profilo statistico, un ulteriore limite è costituito dal peso che si dà al numero in assoluto di aborti, ma non invece al rapporto di abortività, cioè alla relazione che intercorre fra gli aborti realizzati ogni anno e il numero dei bambini che nello stesso periodo nascono vivi. Poiché questo dato numerico è rimasto costante in 30 anni, se ne deduce che è rimasta costante - e non è calata - la tendenza ad abortire.

Le medesime statistiche forniscono numeri dai quali è impossibile comprendere le cause che inducono ad abortire. Ciò accade perché, nella fase che dovrebbe essere di prevenzione, nessuno chiede nulla alla donna, e di conseguenza il personale medico nulla annota sulla scheda per la richiesta dell'ivg: come è possibile, in attuazione della legge, prevenire l'aborto se non si conoscono le principali cause che portano le donne a una scelta così drammatica? Una scelta resa comunque agevole - quasi banalizzata - dal fatto che per abortire basta una mera manifestazione di volontà: in base alla 194, infatti, pur se il medico o il consultorio non riconoscono i motivi addotti dalla gestante per l'ivg, essi sono tenuti a rilasciare il certificato che attesta che la gravidanza è in atto. Il certificato costituisce titolo sufficiente, dopo sette giorni, per abortire; dunque, non vi è alcun filtro che permetta prevenzione o dissuasione. Se dunque, per un verso, l'applicazione della 194 non è andata verso una "procreazione cosciente e responsabile", per altro verso la media stimata del ricorso all'aborto clandestino si è attestata sulle 45.000 unità all'anno: è un dato che segnala il fallimento anche sotto questo riguardo.

2. Perché la tutela della vita è una battaglia laica. Per cogliere l'umanità del concepito non è necessario il catechismo. E' sufficiente l'ecografo! Dire che si tratta di vita umana non è un atto di fede, ma è una constatazione che prescinde dalla confessione religiosa di riferimento. Spesso la confessionalizzazione del tema è il modo laicista per esorcizzare una discussione laica in materia.

Dal punto di vista biologico, la formazione e lo sviluppo umano appaiono come un processo unico, continuo, coordinato e graduale sin dalla fecondazione, con la quale si costituisce un nuovo organismo dotato di capacità intrinseca di svilupparsi autonomamente in un individuo adulto. I più recenti contributi delle scienze biomediche apportano preziose evidenze sperimentali alla tesi dell'individualità e della continuità dello sviluppo embrionale. Dal momento in cui l'ovulo è fecondato, si inaugura una vita che non è quella del padre o della madre, ma di un nuovo essere umano che si sviluppa per proprio conto. Le recenti acquisizioni della biologia umana riconoscono che nello zigote derivante dalla fecondazione dei due gameti si è già costituita l'identità biologica di un nuovo individuo umano, dotato di un proprio codice genetico, e quindi di un valore antropologico unico. Il concepito non è un essere umano in potenza, ma un essere umano in atto. È in potenza adulto, bambino o vecchio, ma è in atto un essere umano, e in quanto essere umano è anche persona, dal momento che non si vede come la dimensione personale possa subentrare in epoca successiva all'inizio della vita umana, cioè al concepimento.

La 194 elude il nodo riguardante l'identità biologica del concepito. Nella relazione di maggioranza, che alla Camera dei Deputati accompagnò la proposta poi divenuta legge, l'"opportunità di introdurre la nuova disciplina dell'aborto" veniva evocata "al di là delle diverse convinzioni morali, religiose e scientifiche": il legislatore ha dunque affermato di voler prescindere perfino dalla scienza; e quest'ultima attesta in modo inequivoco l'umanità del concepito. Ciò è in linea con quanto aveva scritto la Corte Suprema degli USA, che in una sentenza del gennaio 1973 aveva reso l'aborto libero in tutti gli States: "non abbiamo bisogno di risolvere il difficile problema di quando la vita cominci"; e però, nel dubbio (non invincibile) si rendeva possibile la soppressione della vita. Più di recente, nel luglio 2004, la Corte europea dei diritti umani, pur decidendo di un caso nel quale era importante partire dal presupposto se il concepito è o non è un essere umano, ha stabilito che "la questione dell'inizio del diritto alla vita sia da decidere a livello nazionale (...) perché tale questione non è stata decisa dalla maggioranza degli Stati (...) e (...) perché non esiste in Europa un consenso generale sulla definizione scientifica e giuridica dell'inizio della vita". La difficoltà ha un significato evidente: se ci si pone il quesito di quando inizia la vita si corre il rischio, in base alla risposta, di dover sottoporre a revisione dogmi che appaiono intangibili.

3. Una politica per la vita per ridare vita alla politica. E invece il quesito va posto senza timore, e merita risposta. La sfida va vissuta non come un problema da rimuovere, ma come una opportunità per riattivare la politica. Negli USA di questi temi si discute sulla scena politica, al punto che diventano occasione di confronto nelle campagne elettorali, costituiscono motivo di successo fra gli elettori, perché esiste un contesto culturale e politico che spinge alla riflessione critica dei pregiudizi della biotecnocrazia. Auspichiamo che si formi un contesto simile anche in Italia e in Europa: se c'è una battaglia di avanguardia sulla quale chi ambisce a rappresentare il Centrodestra è chiamato a combattere, essa è quella per la tutela e la promozione della vita, dal concepimento alla morte naturale. Infatti, se lo Stato è l'organizzazione della società, quest'ultima si fonda sulla dignità di ogni essere umano; lesa la quale, tutto è possibile. Siamo convinti che va combattuta la posizione di chi esorta a tenere distinte la sfera confessionale e religiosa da quella politica e giuridica, come se parlare di difesa della vita equivalesse automaticamente a salire sull'altare, a indossare i paramenti sacri, e a iniziare un'omelia. E' una distinzione che qui non ha senso: la contrapposizione non è fra cattolici e non cattolici, ma fra chi intende la natura come un dato certo e normativo, e chi ritiene invece che la natura è un mero postulato culturale, e quindi è soggetta alla libera contrattazione fra le parti.

Il nocciolo del discorso è il diritto naturale: e cioè un quadro di valori la cui esistenza non dipende dai mutamenti della storia, dai conflitti di classe o di razze, dalla costruzione di mondi utopici, o dai pensieri degli opinion maker, ma sono iscritti in modo stabile e immutabile nella natura dell'uomo; regole essenziali valide in ogni epoca e in ogni luogo: non uccidere, non rubare, non dire il falso... Che, lette in positivo e nei loro riflessi sociali e politici, significano: difendi la vita dell'innocente con legislazioni e provvedimenti amministrativi adeguati, rispetta l'altrui proprietà, in un'ottica di solidarietà, lavora per l'onestà e per la trasparenza nella vita pubblica... L'insieme di questi principi e precetti è impresso nella natura di ogni uomo, anche se non sempre viene percepito con chiarezza: per questo, al di là di ogni deformazione, viene chiamata diritto naturale. E' il frutto della osservazione e della "scoperta" delle costanti naturali della persona e in essa la politica può trovare il fondamento per edificare la comunità; da essa il diritto positivo trae le coordinate entro le quali proseguire nella sua elaborazione.

Riteniamo questa battaglia di avanguardia e di libertà, perché l'essenza del totalitarismo coincide con l'arbitrio che un uomo esercita su un altro uomo al punto da modificare, o addirittura da togliergli la vita. Se il confine fra la vita e la non vita non è netto e invalicabile, se non viene individuato quale dato oggettivo da riconoscere e da rispettare, ma rappresenta qualcosa di variabile a seconda delle opinioni soggettive o delle scelte di una maggioranza, non si può dire che la prospettiva totalitaria sia alle spalle. Se è possibile (e anzi è stimato un bene, poiché riceve il contributo del servizio sanitario nazionale), uccidere un uomo in quanto è troppo giovane - non ha completato i nove mesi di permanenza nel corpo della madre -, cioè perché è lontano dall'optimum della vita, non esistono ragioni di principio, ma solo di mera convenienza del momento, per non uccidere chi è troppo vecchio, cioè è lontano dall'optimum della vita al capo opposto del filo, ovvero per non uccidere il portatore di handicap, che è lontano dall'optimum fisico; ovvero - e questa è l'esperienza dei totalitarismi realizzati nel XX secolo - per uccidere l'altro in quanto la pensa diversamente, e quindi è lontano da un optimum ideologico, ovvero appartiene a un'altra razza, e quindi non è in linea con l'optimum etnico.

4. Qualche indicazione concreta. In occasione del trentennale della 194, meritano approfondimento, a nostro avviso, alcuni passaggi, nella prospettiva che il confronto non resti teorico, ma conosca sviluppi pratici:

a) La fase della dissuasione-prevenzione prevista dall'art. 5 della 194 va finalmente attuata, avviando la formazione mirata di tutti i soggetti che in essa sono chiamati a intervenire, prevedendo apposite risorse nei bilanci nazionale e regionali, che rendano non virtuali le alternative all'aborto proposte nel singolo caso, con una verifica dei risultati. Discuteremo con i nostri rappresentanti nei Consigli regionali le modalità per rendere effettiva tale fase. La disapplicazione di questa parte della 194 deriva largamente dall'aver fatto coincidere il concetto di prevenzione dell'aborto col concetto di prevenzione dei concepimenti: con questo tipo di condizionamento, è facile per il medico che rilascia il certificato ritenere declamazioni prive di significato le indicazioni della legge tese a rimuovere le cause dell'aborto. La prevenzione dell'aborto va invece legata il più possibile alla prosecuzione della gravidanza, per quanto difficile o inizialmente non desiderata, al fine di tutelare insieme il concepito e la madre.

b) L'art. 2, comma 2, della 194 stabilisce che "i consultori sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni di volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita". Ci sono associazioni di volontariato, in particolare i Centri di aiuto alla vita promossi dal Movimento per la vita, che da trent'anni, sparsi in tutta Italia, hanno garantito a circa centomila donne la libertà di non abortire e ad altrettante vite umane la libertà di non essere uccise. Spesso le strutture sanitarie hanno fatto apparire questo successo - un successo anzitutto per la donna, che è stata aiutata a prendere una decisione coraggiosa, ma certamente meno drammatica del ricorso all'aborto - quasi come una colpa, o come un segnale di pericolosa faziosità. Chiediamo invece che siano promossi accordi più stabili e diffusi con queste realtà, tesi a rendere la loro attività meno complicata, con minori ostacoli all'interno delle strutture sanitarie. Un maggiore coinvolgimento delle associazioni di volontariato è in grado di sollecitare e di mettere in moto le realtà che dovrebbero realizzare l'aiuto alla maternità difficile. Se è più comodo per una struttura sanitaria dire alla donna "questo è il certificato, vai pure ad abortire...", una convenzione che in un ospedale consenta di avvalersi di chi ha un approccio meno formalistico e sommario può indurre invece a prendere realmente in considerazione strade diverse, senza che questo si traduca in pressioni sulla gestante. Anche su questo fronte attiveremo un confronto con i consiglieri regionali del Partito.

c) L'art. 7 comma 2 della 194 stabilisce che quando il concepito ha possibilità di vita autonoma "il medico che esegue l'interruzione deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto". La cronaca recente e meno recente informa che ciò non accade. Sul punto la 194 va resa più chiara. Il progresso scientifico ha anticipato la possibilità di sopravvivenza nei nati prematuri. La collocazione alla fine del sesto mese di gravidanza della distinzione tra aborto e parto prematuro - non scritta nella legge 194, ma tradizionalmente ripetuta nei manuali medici - è superata. Ai Centri di aiuto alla vita si moltiplicano le notizie di bambini "abortiti", ma contrassegnati da evidenti segni di vita (battito cardiaco, gemiti, atti respiratori), eppure lasciati morire sul tavolo operatorio. "Lasciar morire" e in qualche caso - come pure accade - "affrettare la morte" è il contrario di "salvaguardare la vita".

d) Nella legge 194 non è mai formalmente riconosciuta la possibilità di abortire per ragioni eugenetiche, ma solo in quanto queste ultime incidano sulla salute della donna; e tuttavia, il richiamo alle malformazioni del nascituro c'è. Dopo trent'anni è venuto il momento di chiedersi - e ciò va fatto anzitutto in Parlamento - se è giusto non modificare il passaggio di una legge in base al quale un essere umano non ha il diritto di vivere in quanto è "malformato", o comunque lo ha in forma più fievole per il solo fatto di non essere ancora nato.

e) L'art. 4 della 194 ricomprende le varie "indicazioni" all'aborto (economiche, sociali, familiari) sotto il più ampio riferimento alla salute della donna. La salute, quindi, non ha una accezione limitata a patologie riscontrate in modo scientifico, ma viene interpretata come estesa alla salute psichica: il concetto di salute esce dai manuali di medicina per abbracciare il senso di completo benessere, fisico e psicologico. In questi termini la nozione di "aborto terapeutico", su cui si fonda l'intero impianto della legge 194, consiste nel far presente a una donna che può liberarsi del figlio non ancora nato nell'illusione di "stare psicologicamente meglio" e che può sopprimere un bimbo in utero, forse anche capace di vita autonoma, solo perché fonte di alterazione del proprio benessere. Anche su questo è giusto fornire risposte in termini di adeguate modifiche legislative.

f) Infine, il padre. Il cui ruolo è reso marginale dalla 194: può essere coinvolto nella decisione della donna di abortire solo se lei lo desidera, e questo anche se i due sono coniugati. Il padre del concepito va invece informato della gravidanza e va coinvolto, almeno a livello consultivo, nelle decisioni riguardanti la vita del figlio, ai fini della difesa della vita e del sostegno alla madre. Pari opportunità vale anche per i padri in ordine alla scelta del destino dei propri figli.

A nostro avviso, l'iniziativa politica non va limitata al Parlamento nazionale e/o ai Consigli regionali: essa deve attraversare il Parlamento europeo, sede in questo momento di tendenze ostili al diritto naturale. Mai come in questo momento la frontiera del diritto alla vita coincide col futuro politico della nazione, dell'Europa e con le sorti stesse della politica.

Per questo proponiamo che in occasione della Conferenza programmatica che Alleanza Nazionale organizza a Milano dall'8 al 10 febbraio per definire e illustrare le sue proposte per l'attuale momento politico, una sessione sia dedicata tematicamente al diritto alla vita, e a dare concretezza alla moratoria sull'aborto e alle iniziative da intraprendere in tale direzione. Invitiamo tutti gli iscritti e i simpatizzanti a sottoscrivere questo nostro appello: un partito politico non deve e non può restare indifferente!

Alfredo Mantovano - Gianni Alemanno - Maurizio Gasparri - Barbara Saltamartini - Giorgia Meloni

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