mercoledì 5 dicembre 2007

RECALL. COME RIEQUILIBRARE IL RAPPORTO FRA DEMOCRAZIA DIRETTA E DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA

Nei momenti di partecipazione attiva dei cittadini alla politica, il bisogno di revocare gli eletti è emerso in tutti i tempi e in tutti i paesi.

L'istituto della revoca (recall) è contemplato in vari Paesi dell'America Latina: 2 milioni e mezzo di venezuelani, nel 2003, ne hanno fatto uso nei confronti di Chavez, che però ha superato la prova delle urne. Nello stesso anno è invece andata peggio al governatore democratico della California Gray Davis, revocato 11 mesi dopo l'elezione ritenuto “responsabile” di un deficit statale dell’ordine di circa 40 milioni di dollari, a referendum popolare. In seguito al recall Davis venne destituito e Arnold Schwarzenegger prese il suo posto.Infatti da quelle parti il recall esiste fin dal 1911, è stato richiesto 31 volte per rimuovere un governatore, funziona pure nei riguardi di deputati e senatori, come avviene in altri 18 Stati dell'Unione. La California è lo Stato più popoloso degli Usa, con un Pil superiore a quello dell'Italia. Se può permettersi di licenziare i governanti inetti, significa che è un buon esempio da seguire.

Silvia Ferretto, consigliere regionale di alleanza nazionale in Lombardia, ha lanciato nei giorni scorsi una proposta sul diritto di revoca del mandato dei rappresentanti eletti in Consiglio Regionale. Tale opportunità meglio conosciuta come recall è già in vigore in numerosi stati americani così come nella Confederazione Elvetica (Abberufsrechts) e consiste appunto nella possibilità degli elettori di revocare anticipatamente, per mezzo di un referendum popolare con quorum prestabiliti, il mandato elettivo.

Sono convinta – ha dichiarato la Ferretto - che il recall rappresenti un importante strumento di democrazia diretta del quale dovrebbero poter disporre tutti gli elettori ed è per questo che ho presentato un emendamento allo Statuto affinchè esso venga introdotto nella nostra normativa regionale, con l’auspicio che il nostro esempio venga adottato da altre regioni e anche a livello nazionale.

La proposta è stata prontamente accolta dal Capogruppo di Alleanza Nazionale in Regione Abruzzo, Alfredo Castiglione, che a giorni presenterà una proposta da sottoporre al vaglio del Consiglio Regionale.

“L’esigenza - speiga Castiglione- è quella di porre un freno all’indecorosa transumanza degli eletti da un partito all’altro, alla mercificazione dell’incarico elettivo a fini personali, restituendo il pallino agli elettori. La politica non può ridursi al calciomercato né può diventare ostaggio di chi dà vita a partiti politici per ricattare e condizionare le scelte di chi è stato eletto dagli elettori”

Progetto L’Aquila condivide al 100 % la proposta dei consiglieri regionali ed auspica che nei prossimi giorni sia messa in atto una grossa mobilitazione del partito a livello regionale per sostenere il provvedimento.

Un argine contro il trasformismo è costituzionalmente possibile
di Salvatore Curreri* 17 Maggio 2007

È opinione prevalente tra i giuristi che i cambi di partito e di schieramento politico cui, com’era prevedibile, stiamo assistendo in questo inizio di legislatura siano costituzionalmente legittimi perché protetti dall’art. 67 della nostra Costituzione, secondo cui “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Ciascun parlamentare, quindi, sarebbe libero di mutare orientamento politico senza con ciò perdere il proprio seggio, in quanto rappresentante non del partito che lo ha candidato o degli elettori che lo hanno votato ma dei supremi interessi nazionali.
Questa interpretazione del dettato costituzionale non mi ha mai convinto, così come non convince la gran parte degli elettori, i quali, indignati e delusi, considerano tali fenomeni un tradimento della propria volontà elettorale. A che vale, infatti, votare per la lista di un partito, per un programma e per un candidato premier, se poi i singoli eletti possono fare e sfare tutto ciò che vogliono in nome del loro libero mandato parlamentare?
In realtà questa mitica concezione del parlamentare come libero interprete del bene supremo della Nazione è frutto di una visione paleoliberale, ottocentesca della rappresentanza politica, quando i pochi cittadini con diritto di voto eleggevano senza alcuna intermediazione coloro che reputavano per capacità personali i “migliori”, come tali in grado di interpretare ciò che era bene per tutti.
L’introduzione del suffragio universale e la nascita dei partiti politici di massa segnano il passaggio dallo Stato liberale allo Stato democratico, dove la sovranità spetta non alle istituzioni statali ma al popolo, il quale la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione (art. 1), e precipuamente attraverso i partiti che sono lo strumento attraverso cui i cittadini sono in grado di concorrere quotidianamente alla determinazione della politica nazionale (art. 49). Il voto, infatti, oggi non è più delega in bianco a chi si ritiene superiore perché interpreti la volontà comune ma è scelta di un indirizzo politico di partito e di coloro che, una volta eletti, sono chiamati a perseguirlo. Se così non fosse, saremmo come il popolo inglese di cui parlava Rousseau che credeva, sbagliandosi di grosso, di essere libero: in realtà lo era solo il giorno delle elezioni; appena eletti i parlamentari, esso tornava schiavo, non era più niente.
Si è passati così dal divieto di mandato imperativo al mandato di partito. Gli elettori oggi non votano per il candidato a prescindere dal partito, né il partito a prescindere dai candidati, ma votano insieme per il partito e per i candidati. In democrazia, gli eletti quindi sono chiamati a perseguire il programma politico del partito che li ha candidati e che gli elettori hanno votato.
Quanto sopra assume ancora più forza da quando, grazie alla riforma elettorale del 1993, siamo passati da una democrazia consociativa ad una democrazia maggioritaria; da quando cioè, per riprendere una efficace immagine di Duverger, gli elettori non si limitano più a distribuire le carte ai partiti perché questi decidano come giocarle per vincere sul tavolo della politica, ma vogliono loro stessi decidere chi deve vincere la partita, chi deve andare al governo e chi all’opposizione.
Coloro che giustificano il trasformismo politico appellandosi all’art. 67 Cost. si basano su una interpretazione isolata e perciò parziale di tale disposizione, senza tenere conto del contesto costituzionale in cui essa si inserisce. Si tratta, invece, di interpretare il divieto di mandato imperativo alla luce del preminente principio della sovranità popolare e non, viceversa come oggi si è soliti, il principio della sovranità popolare alla luce del divieto di mandato imperativo, trovando soluzioni intermedie che rendano il rappresentante né il libero ed assoluto interprete del mandato ricevuto dagli elettori né, per non cadere nell’eccesso opposto, il pavido e docile esecutore di direttive oligarchiche di partito, pena la perdita del mandato.Basta del resto guardare un po’ al di là dei nostri confini per rendersi conto che il tema della rappresentanza politica può trovare altre forme di declinazione. La Costituzione portoghese, ad esempio, pur affermando che i deputati rappresentano l’intero paese, prevede la perdita del seggio in caso di iscrizione ad un partito diverso da quello per cui ci si è candidati. In Spagna, dove il fenomeno del c.d. transfughismo politico era particolarmente diffuso, i regolamenti delle Cortes e delle assemblee regionali penalizzano coloro che cambiano gruppo, ad esempio obbligandoli ad iscriversi nel gruppo misto e privandoli di risorse economiche e strutturali. Negli Stati Uniti è previsto il recall che permette agli elettori di poter revocare il mandato dei propri eletti (un sistema simile ad esempio si sarebbe potuto introdurre in Italia, magari su iniziativa dello stesso partito, se si fossero mantenuti i collegi uninominali)
Nel nostro paese si è tentato di introdurre talune limitazioni, finora senza fortuna. Ci ha provato l’allora Presidente della Camera Violante, sull’onda del clamoroso caso di compravendita di un parlamentare esploso nella XIII legislatura. Lo stesso tanto vituperato progetto di riforma costituzionale, bocciato nel referendum del 25-26 giugno 2006, riprendendo un’idea contenuta nella bozza Amato, prevedeva lo scioglimento delle Camere nel caso in cui la maggioranza a sostegno del governo fosse variata con il contributo determinante di parlamentari dell’opposizione.
Come si vede, il tema della rappresentanza politica è molto più complesso Ridurlo al vieto ritornello del parlamentare libero interprete della volontà della Nazione significa avere una concezione un po’ datata ed aristocratica della democrazia. Si tratta piuttosto di superare l’indignazione di comodo che caratterizza talvolta le posizioni dei partiti per introdurre a vario livello (convenzionale, regolamentare, costituzionale) soluzioni atte ad arginare il fenomeno del trasformismo politico. Perché ad esempio i partiti italiani, al pari di quelli spagnoli, non sottoscrivono un patto anti-transfughismo in cui si impegnano vicendevolmente a non accogliere, né candidare parlamentari che abbiano cambiato casacca? Perché non stabilire la corrispondenza tra liste elettorali e gruppi parlamentari, vietando la costituzione di gruppi privi d’identità politico-elettorale, ancorché dotati del requisito numerico? Perché non obbligare i parlamentari ad aderire al gruppo corrispondente alla forza politica nelle cui liste sono stati eletti, pena l’iscrizione al misto? A mio parere si tratterebbe di soluzioni equilibrate, costituzionalmente legittime, tese ad evitare che per proteggere il parlamentare dal partito lo si mantenga sovrano interprete della volontà sua e dei suoi elettori.

*) Associato in diritto pubblico – Università Kore
tratto dal sito www.referendumelettorale.org

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